16 gennaio 2002
Il
Po non arriva più nell’Adriatico
L’acqua
marina nel letto del fiume in secca per 30 chilometri. A rischio gli allevamenti
di molluschi
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- DAL NOSTRO INVIATO
MANTOVA-FOCE DEL PO - Il faro bianco e tozzo di Bocca di Goro, sentinella
che vigila sull’estremo lembo meridionale della raggiera del Delta, è lì
ad aspettarlo, come sempre. Ma il Po di questi giorni, spossato dalla natura
e violentato dall’incuria umana, non ce la fa proprio. Non ci arriva. Si
arrende prima. Le sue acque dolci, dopo una corsa di seicentocinquantadue
chilometri attraverso vallate e pianure, arretrano di fronte alla forza
intatta dell’Adriatico. Che avanza, si incunea e viola la laguna del
Grande Fiume, spompato dalla magra. «Ormai l’acqua del mare è risalita
lungo il corso del Po per quasi trenta chilometri» conferma Lino Tosini,
direttore del Consorzio di Bonifica del Delta Po Adige.
Una brodaglia salata, dal colore dubbio e dalle temperature di un
cappuccino, che insidia e uccide gli allevamenti di cozze e vongole, che
sottrae preziosi approvvigionamenti idrici alla centrale termoelettrica di
Porto Tolle, che potrebbe addirittura mettere a rischio il funzionamento
dell’acquedotto di Ponte Molo, che costringe da settimane gli agricoltori
a complicate operazioni di irrigazione. Qui, nei 430 chilometri quadrati del
Delta, è l’Adriatico il vero dio: più forte, più generoso, meno bizzoso
e umorale del Po, maestro di piene e di magre. «La secca? Per noi non
esiste. Noi abbiamo le maree, che tutto regolano...», gonfiano il petto i
pescatori di Goro. Che sono carichi di pesce e hanno una fretta terribile
perché al mercato ittico, vicino al porticciolo, sta per iniziare la
seconda asta di giornata, quella di metà pomeriggio, «e chi arriva tardi
si becca la roba peggiore».
Ma questa è solo la fine della storia. Prima c’è ancora un Po da
raccontare. Temuto e rispettato, nonostante tutto. Come quello che stringe
tra le sue spire la Rocca di Stellata, sponda ferrarese a 180 chilometri
dalla foce, per secoli presidio militare nevralgico contro possibili
attacchi dall’entroterra. Adesso il pontile sprofonda nella sabbia e le
case, schiacciate dall’argine, sembrano in collina. Però una targhetta
ricorda che l’Ariosto, nel suo «Orlando Furioso», citò quella Rocca,
narrando il viaggio di Rinaldo che discende il Po. E nel dodicesimo secolo,
rammentano gli esperti, fu proprio qui che il Grande Fiume diede vita ad uno
degli eventi geofisici più rilevanti: il suo corso, che fino ad allora
puntava su Ferrara, si impennò improvvisamente verso nord, ostruì le
bocche meridionali della Laguna Veneta e costrinse i veneziani ad inventarsi
un canale più a sud, l’attuale Po di Venezia.
O come a Pontelagoscuro, sempre nel Ferrarese, 150 chilometri dal Delta: ai
tempi dell’ultima piena, tre anni fa, il ponte sul quale quotidianamente
sfrecciano i treni della linea Roma-Venezia venne addirittura alzato per
evitare che la furia del Grande Fiume lo facesse a pezzi. Per questo, anche
per questo, nessuno ora si sogna di ironizzare sul dio malato, deboluccio e
pure sporco. «Ha le spalle larghe di sempre - dicono al bar Pontevecchio,
lasciando rimbalzare lo sguardo da una sponda all’altra -, è soltanto un
po’ smagrito, ma ne riparliamo in autunno...».
Si riprenderà, certo, ma ora fa davvero impressione. Una chiatta insabbiata
ricoperta di erbacce. I resti del vecchio ponte, distrutto durante
l’ultima guerra, che affiorano dall’acqua. Il vecchio idrometro a scala,
oggi fuori uso, che abbrustolisce sotto il sole delle due di pomeriggio.
Reti di pescatori che penzolano nel vuoto, ad acchiappare libellule. I dati
attuali indicano una portata d’acqua pari a 400 metri cubi al secondo.
Contro una media, in tempi normali, di 1.000 metri cubi al secondo, con
punte fino a 1.400. Per non parlare poi dei giorni di piena, quando la massa
d’acqua può arrivare, ed è arrivata, anche a 12 mila metri cubi al
secondo. E allora anche i ponti vengono alzati.
Via, di corsa, dietro al fiume che arranca: Polesella, Crespino, Villanova.
A Papozze, sponda rodigina, turisti austriaci e ungheresi si contendono ogni
estate, in una sorta di duello marino, i pesci siluro.
I primi li cacciano per sport, per diletto, per provare l’ebbrezza di
sentire tirare al filo bestie che possono superare anche i due metri di
lunghezza. I secondi, più pratici o più affamati, puntano invece alla
carne, che a loro, anche se grigiastra, piace. Avanti. Fino a Taglio di Po.
Campi di mais e di barbabietole a perdita d’occhio, orizzonti da brivido,
la magia dei casolari. Le province di Ferrara e Rovigo, dirimpettaie da
secoli, condividono in questi giorni di siccità le stesse cattive notizie.
La moria di cozze. «L’intera produzione di quest’anno - afferma
l’assessore provinciale alla pesca, Roberto Zanetti - rischia di andare
perduta. Parliamo di oltre 30 mila quintali di cozze destinate al mercato
italiano, spagnolo e francese». Troppo calda l’acqua in laguna, un brodo
micidiale: «Siamo sui trenta gradi contro gli abituali 25, impossibile che
sopravvivano».
Si illude chi pensa di scaricare ogni colpa sulla piaga della siccità: «Eh
no, ci sono precise responsabilità - prosegue l’assessore -. I lavori di
risanamento nei canali, che in gergo tecnico vengono definiti di
"vivificazione", sono iniziati nei primi anni Novanta senza mai
essere stati completati. Si sono accumulate ingenti quantità di limo e di
altri materiali e ciò impedisce un adeguato ed equilibrato ricambio tra
l’acqua dolce del Po e quella salata dell’Adriatico». «E’ vero, non
c’erano abbastanza stanziamenti - allarga le braccia l’ingegnere Tosini
del Consorzio Bonifica Delta Po Adige, al quale la Regione ha affidato il
compito del risanamento -. Dei 50 miliardi di vecchie lire necessarie, ne
abbiamo visti soltanto 12. Impossibile proseguire i lavori. Pare che ora
siano in arrivo tre milioni di euro...».
E non stanno meglio gli allevamenti di vongole, business che tira forte da
queste parti (14 cooperative per un totale di 1.100 soci, otto milioni di
metri quadrati di allevamenti). «Scarseggia l’acqua dolce - afferma Diego
Viviani, presidente della coop Rosa Dei Venti -, l’unico rimedio è aprire
tutte le bocche del Po per tentare di contrastare l’avanzata del mare».
Anche la centrale termoelettrica di Porto Tolle, la cui produzione copre il
5% del fabbisogno nazionale e il 40% di quello del Veneto, è assetata di
acqua dolce, indispensabile per produrre vapore acqueo da immettere nelle
turbine (per il raffreddamento, invece, è sufficiente l’acqua
dell’Adriatico, che di certo non manca). Unica soluzione, visto che sul Po
non si può assolutamente contare, sono allora le autobotti: una ventina di
mezzi, in un’ininterrotta giostra, fanno la spola 24 ore su 24. Costi
alti, operazione praticamente a perdere per l’Enel. Ma l’interesse
pubblico e le direttive governative lo impongono. E così, anche se a
scartamento ridotto e con prospettive non certo incoraggianti, la centrale
continua a sfornare elettricità. Funziona per ora l’acquedotto di Ponte
Molo, che alimenta l’intero Delta, a valle di Porto Tolle. «Ma pure esso
è insidiato dal sale - spiega l’assessore Zanetti -. Se l’onda
dell’Adriatico avanza, l’impianto potrebbe infatti andare in tilt perché
l’acqua del mare, non essendo trattabile, non può essere aspirata».
Anche irrigare sta diventando complicato: «Lo si deve fare ogni sei ore -
aggiunge Tosini -: solo quando, approfittando della bassa marea, nei canali
prevale l’acqua del Po. Ma avanti così, sarà dura...». Tramonto da
cartolina sui cinque rami del Delta. Neanche un accenno di nube
all’orizzonte. Il faro è lì che aspetta. Ma il Po dov’è?