Giovanni
Bellinello, 86 anni, era a bordo del camion che
per un errore andò incontro alla piena. Morirono
in ottantaquattro, la sua famiglia fu distrutta
«L'acqua
saliva e si è portata via i bambini»
Cinquant'anni
dopo, nel ricordo dei sopravvissuti, le nitide
immagini dell'alluvione del Polesine
Dall'inviato
rovigo «Faceva freddo
perché era come adesso, metà novembre.
Aspettavamo che venissero a salvarci, l'acqua
saliva, ma non la vedevamo, ci ha preso i piedi,
le caviglie. Abbiamo preso i bambini in braccio,
ma era come in un sogno che a un certo punto è
tutto confuso e non capisci nulla e sembra tutto
impossibile. L'acqua mi è salita sopra il
ginocchio e allora io con il mio bimbo di otto
anni che si chiamava Ugo mi sono arrampicato sul
cofano del camion, ci sono riuscito, passando dal
cassone dietro. Gridavano, Dio, gridavano e
piangevano. C'erano bimbi piccoli piccoli. La mia
Anna, il mio Carlo. L'acqua mi è salita al petto
allora ho intravisto una fascina che passava e mi
sono buttato, ma abbiamo mancato la fascina e
siamo andati sotto... e poi non so, non so».
Nella storia di Giovanni Bellinello c'è il
momento più tragico del dramma del Polesine che
sconvolse l'Italia e mobilitò tutto il mondo.
Nella frazione
persa nel buio
Qui alla Roncala, in questa sera di cinquanta anni
dopo il buio è profondo, l'aria nebbiosa come
allora. Da questo pugno di case è passato
cinquant'anni fa quel camion, un vecchio Alfa
Romeo dal muso sporgente. La porta della casa si
apre, la luce si riversa nel cortile buio. «Sono
passati tanti anni - dice Giovanni Bellinello.
Tanti anni. Che cosa posso raccontare? Oh,
cinquant'anni, l'anniversario, certo. Quel camion
passò di qui. Io con mia moglie, i miei figli ero
sul fienile, erano le due di notte credo. Eravamo
contadini, poveri contadini. Io avevo 36 anni
allora, mia moglie Valentina 31. Il mio primo
figlio aveva otto anni, poi c'erano le due bambine
di 6 e 3 anni. Lavoravamo nell'azienda agricola
della Folaga. Eravamo rifugiati nel fienile,
eravamo una ventina, c'era anche la famiglia di
mio fratello. Quel camion doveva andare in un
altro paese, ma venne da noi perché là dove
doveva andare c'era già tutto allagato».
La cucina è semplice, povera, la stufa
nell'angolo, la televisione accesa. Giovanni
Bellinello oggi ha 86 anni, è magro, i tratti
minuti, sottili. Scuote la testa: «Così siamo
saliti. Questo è il destino. Se fossimo rimasti
sul fienile non sarebbe accaduto niente. Arrivato
a Capo Rumiatti il camion doveva tirare dritto, in
direzione Rovigo. Invece girò a destra perché
sulla via Monti c'erano dei carri tirati dai buoi
impantanati perché le strade erano di terra.
Allora scendemmo verso Chiesa di Frassinelle. Qui
ci fu lo sbaglio.
Il tragico
errore
Arrivati al bivio di via Mazzini un uomo ci
avvisò, lo ricordo, aveva la lanterna, ci disse
di non andare dritti, ma di girare a sinistra,
perché se andavamo dritti saremmo finiti
nell'acqua che saliva. L'autista invece tirò
dritto. Poco prima di Chiesa di Frassinelle
trovammo l'acqua, il camion si bloccò. L'acqua
era alta due spanne, qualcuno scese dal camion,
tornò indietro camminando con l'acqua alle
ginocchia. Ma la maggior parte erano donne e
bambini piccoli si decise di non rischiare: così
sembrò più prudente aspettare i soccorsi. Così.
È andata così».
Bellinello si asciuga gli occhi. Quella notte
l'acqua salì inesorabile e rapida. Raggiunse le
ruote, poi il cassone e le caviglie delle persone.
C'erano bambini anche molto piccoli come Lauro di
due mesi e Francesca di quindici giorni. Racconta
Bellinello: «Abbiamo imbevuto di nafta i
cappotti, li abbiamo incendiati sperando che
potessero vederci i soccorritori. Niente. A ogni
minuto l'acqua saliva. Gridavamo, gridavamo,
gridavamo. Niente. Io avevo il mio Ugo sul cofano
con me. L'acqua era alla pancia e saliva. -
Giovanni Bellinello si ferma, scuote la testa - io
ho visto quella fascina che passava spinta dalla
corrente e ho pensato che potevo farcela e mi sono
buttato insieme al mio bambino. Faceva freddo,
freddo. La fascina l'ho mancata. Per poco. E sono
andato sotto».
Delle novantanove persone trasportate dal camion,
ottantaquattro morirono in quella notte che
procedeva verso un'alba senza colore, grigia come
la disperazione. Giovanni Bellinello venne
ripescato da barcaioli di Venezia che erano
arrivati lì, volontari, nella notte. Venne
portato in ospedale in fin di vita per
assideramento, ma sopravvisse. «Non volevo
credere che la mia famiglia fosse stata distrutta.
Uscii dopo quindici giorni, credo, mi
accompagnarono al cimitero, vidi le croci, le
tombe. Non ce la feci, crollai, mi riportarono in
ospedale, ci restai due mesi».
Ma Giovanni Bellinello riuscì a continuare la
vita: dopo qualche anno si sposò di nuovo, ebbe
due figli, oggi il pensiero dei nipoti gli fa
rinascere un poco il sorriso.
Una zona
povera
Stradine, canali, grandi distese di campi
coltivati. Ci sono ancora le casette di un tempo,
casette piccole di mattoncini rossi che sembrano
disegnate dai bambini, con finestrelle e
porticina. Ma accanto alle poche casette
superstiti ci sono le villette, le case a schiera
che rendono uguali tutti i paesi d'Italia. Oggi il
Polesine non è fra le zone più ricche del Paese,
ma neppure figura fra quelle nelle condizioni
peggiori: è al 57° posto in Italia come reddito
pro capite. L'agricoltura resta un'attività
importante, ma si è realizzato anche uno sviluppo
notevole della piccola e media impresa soprattutto
nella periferia della città. Nel delta del Po è
nata l'acquacoltura, altra voce forte della nuova
economia del Polesine.
Qui a Chiesa di Frassinelle gli anziani si trovano
nell'unico bar della frazione. Qui incontriamo
Mario Rugin, Luigi Cibin, Primo Tomaini, Bin Dimer,
tutti fra i 67 e i 69 anni. Giocano a carte.
Racconta Rugin: «Io ero all'incrocio dove passò
quel camion, con la lanterna. Mi feci vedere,
gridai all'autista di prendere la strada a
sinistra, di non proseguire dritto perché era
già arrivata l'acqua. Non mi ascoltò.
Probabilmente temeva che volessi aggrapparmi
anch'io al camion già stracarico. Tirò dritto».
La zattera
con i bidoni
Rugin costruì una zattera utilizzando quattro
fusti di petrolio, ma non riuscì a raggiungere il
camion, mise invece in salvo sei persone che si
erano rifugiate sul tetto della loro abitazione.
Dicono gli altri amici: «Eravamo tutti contadini,
la maggior parte salariati. Si lavorava quaranta,
cinquanta giorni all'anno e si veniva pagati per
lo più in natura. Era povertà nera, in certi
casi si soffriva la fame. Dopo l'alluvione la
gente se ne andò, il Polesine perse due terzi
della popolazione. Se ne andarono in
centosessantamila, centomila di questi emigrarono
definitivamente». Bin Dimer era tra gli sfollati:
«La casa era inagibile, non si poteva più
lavorare. Io arrivai a Montebello Vicentino con la
corriera insieme a mio fratello e ad altri
sfollati. Ricordo che il parroco suonò le
campane, arrivò la gente del paese. Noi fummo
ospitati da Adriano Pesavento, bravissima gente,
avevano una piccola azienda che produceva bare, io
ero falegname e gli davo una mano. Restammo fino a
marzo e poi tornammo».
Il Po ruppe gli argini in tre punti in comune di
Occhiobello. Altri canali che affollano la pianura
riversarono l'acqua nella campagna.
Carletto Pasqualini ha il giubbotto, la camicia a
quadri, il cappello. Sta in piedi in mezzo alla
sua barca. «Sono qui di Occhiobello, ho 87 anni,
vengo a pescare il siluro, ho il permesso. Una
volta si pescava lo storione, oggi abbiamo il
siluro, segno dei tempi, che ci vuole fare?»
Carletto porta la rete in mezzo al fiume. È tutto
grigio qua attorno, grigio il cielo, grigia
l'acqua che scorre lenta, grigie le sponde. Lucio
Pavasini è qui sulla banchina, ha 68 anni, anche
lui è di Occhiobello. Scuote la testa: «L'ultimo
storione lo abbiamo pescato nel 1964, pesava 64
chili, poi basta. Forse l'inquinamento. Però
negli ultimi anni il fiume è migliorato... La
casa di mia moglie era là, prima dell'argine, la
piena del fiume la spazzò via. Avevo 18 anni,
allora. Ricordo che piovve per una settimana, ma
poi quel giorno c'era il sole. In paese si
lavorava con i sacchi, li riempivamo di terra,
c'era allarme, ma pensavamo che gli argini
avrebbero tenuto. Dal pomeriggio cominciammo a
temere il peggio. Allora andai a prelevare i nonni
che stavano in un punto critico, ma i nonni non
vollero andarsene. Mi organizzai, portai un tavolo
in solaio, poi presi la vasca dove si scuoiava il
maiale, la attaccai con una corda alla finestra
perché poteva diventare una barca e misi dentro
la vanga per fare da remo. L'acqua invase il primo
piano, poi salì fino al solaio, io ruppi il
soffitto, tolsi le tegole, uscii sul tetto, aiutai
mio nonno a salire, ma mia nonna non ce la fece,
restò in piedi sul tavolo e l'acqua le arrivò
fino al ginocchio e sul tavolo c'erano anche
alcune galline e una faraona. Verso le 21
arrivarono in barca dei poliziotti di Trieste, ma
la corrente era forte, non riuscirono a
imbarcarci. Ricordo bene che alle 4 della mattina
calò la nebbia fitta e non si vedeva più nulla.
Si vedeva. Alle 7,30 arrivarono i soldati di
Milano con i gommoni, li sentivo gridare e io
volevo rispondere, ma non ci riuscivo... Poi
finalmente la voce mi uscì dalla gola: gridai di
seguire i fili della corrente per arrivare fino
alla casa. La casa dei miei nonni crollò dopo
cinque, sei giorni. La ricostruimmo nel 1953 con
l'aiuto del governo».
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