14 Novembre 2001                                                         


Giovanni Bellinello, 86 anni, era a bordo del camion che per un errore andò incontro alla piena. Morirono in ottantaquattro, la sua famiglia fu distrutta
   

«L'acqua saliva e si è portata via i bambini»
Cinquant'anni dopo, nel ricordo dei sopravvissuti, le nitide immagini dell'alluvione del Polesine

Dall'inviato
rovigo «Faceva freddo perché era come adesso, metà novembre. Aspettavamo che venissero a salvarci, l'acqua saliva, ma non la vedevamo, ci ha preso i piedi, le caviglie. Abbiamo preso i bambini in braccio, ma era come in un sogno che a un certo punto è tutto confuso e non capisci nulla e sembra tutto impossibile. L'acqua mi è salita sopra il ginocchio e allora io con il mio bimbo di otto anni che si chiamava Ugo mi sono arrampicato sul cofano del camion, ci sono riuscito, passando dal cassone dietro. Gridavano, Dio, gridavano e piangevano. C'erano bimbi piccoli piccoli. La mia Anna, il mio Carlo. L'acqua mi è salita al petto allora ho intravisto una fascina che passava e mi sono buttato, ma abbiamo mancato la fascina e siamo andati sotto... e poi non so, non so».
Nella storia di Giovanni Bellinello c'è il momento più tragico del dramma del Polesine che sconvolse l'Italia e mobilitò tutto il mondo.
Nella frazione
persa nel buio
Qui alla Roncala, in questa sera di cinquanta anni dopo il buio è profondo, l'aria nebbiosa come allora. Da questo pugno di case è passato cinquant'anni fa quel camion, un vecchio Alfa Romeo dal muso sporgente. La porta della casa si apre, la luce si riversa nel cortile buio. «Sono passati tanti anni - dice Giovanni Bellinello. Tanti anni. Che cosa posso raccontare? Oh, cinquant'anni, l'anniversario, certo. Quel camion passò di qui. Io con mia moglie, i miei figli ero sul fienile, erano le due di notte credo. Eravamo contadini, poveri contadini. Io avevo 36 anni allora, mia moglie Valentina 31. Il mio primo figlio aveva otto anni, poi c'erano le due bambine di 6 e 3 anni. Lavoravamo nell'azienda agricola della Folaga. Eravamo rifugiati nel fienile, eravamo una ventina, c'era anche la famiglia di mio fratello. Quel camion doveva andare in un altro paese, ma venne da noi perché là dove doveva andare c'era già tutto allagato».
La cucina è semplice, povera, la stufa nell'angolo, la televisione accesa. Giovanni Bellinello oggi ha 86 anni, è magro, i tratti minuti, sottili. Scuote la testa: «Così siamo saliti. Questo è il destino. Se fossimo rimasti sul fienile non sarebbe accaduto niente. Arrivato a Capo Rumiatti il camion doveva tirare dritto, in direzione Rovigo. Invece girò a destra perché sulla via Monti c'erano dei carri tirati dai buoi impantanati perché le strade erano di terra. Allora scendemmo verso Chiesa di Frassinelle. Qui ci fu lo sbaglio.
Il tragico
errore
Arrivati al bivio di via Mazzini un uomo ci avvisò, lo ricordo, aveva la lanterna, ci disse di non andare dritti, ma di girare a sinistra, perché se andavamo dritti saremmo finiti nell'acqua che saliva. L'autista invece tirò dritto. Poco prima di Chiesa di Frassinelle trovammo l'acqua, il camion si bloccò. L'acqua era alta due spanne, qualcuno scese dal camion, tornò indietro camminando con l'acqua alle ginocchia. Ma la maggior parte erano donne e bambini piccoli si decise di non rischiare: così sembrò più prudente aspettare i soccorsi. Così. È andata così».
Bellinello si asciuga gli occhi. Quella notte l'acqua salì inesorabile e rapida. Raggiunse le ruote, poi il cassone e le caviglie delle persone. C'erano bambini anche molto piccoli come Lauro di due mesi e Francesca di quindici giorni. Racconta Bellinello: «Abbiamo imbevuto di nafta i cappotti, li abbiamo incendiati sperando che potessero vederci i soccorritori. Niente. A ogni minuto l'acqua saliva. Gridavamo, gridavamo, gridavamo. Niente. Io avevo il mio Ugo sul cofano con me. L'acqua era alla pancia e saliva. - Giovanni Bellinello si ferma, scuote la testa - io ho visto quella fascina che passava spinta dalla corrente e ho pensato che potevo farcela e mi sono buttato insieme al mio bambino. Faceva freddo, freddo. La fascina l'ho mancata. Per poco. E sono andato sotto».
Delle novantanove persone trasportate dal camion, ottantaquattro morirono in quella notte che procedeva verso un'alba senza colore, grigia come la disperazione. Giovanni Bellinello venne ripescato da barcaioli di Venezia che erano arrivati lì, volontari, nella notte. Venne portato in ospedale in fin di vita per assideramento, ma sopravvisse. «Non volevo credere che la mia famiglia fosse stata distrutta. Uscii dopo quindici giorni, credo, mi accompagnarono al cimitero, vidi le croci, le tombe. Non ce la feci, crollai, mi riportarono in ospedale, ci restai due mesi».
Ma Giovanni Bellinello riuscì a continuare la vita: dopo qualche anno si sposò di nuovo, ebbe due figli, oggi il pensiero dei nipoti gli fa rinascere un poco il sorriso.
Una zona
povera
Stradine, canali, grandi distese di campi coltivati. Ci sono ancora le casette di un tempo, casette piccole di mattoncini rossi che sembrano disegnate dai bambini, con finestrelle e porticina. Ma accanto alle poche casette superstiti ci sono le villette, le case a schiera che rendono uguali tutti i paesi d'Italia. Oggi il Polesine non è fra le zone più ricche del Paese, ma neppure figura fra quelle nelle condizioni peggiori: è al 57° posto in Italia come reddito pro capite. L'agricoltura resta un'attività importante, ma si è realizzato anche uno sviluppo notevole della piccola e media impresa soprattutto nella periferia della città. Nel delta del Po è nata l'acquacoltura, altra voce forte della nuova economia del Polesine.
Qui a Chiesa di Frassinelle gli anziani si trovano nell'unico bar della frazione. Qui incontriamo Mario Rugin, Luigi Cibin, Primo Tomaini, Bin Dimer, tutti fra i 67 e i 69 anni. Giocano a carte. Racconta Rugin: «Io ero all'incrocio dove passò quel camion, con la lanterna. Mi feci vedere, gridai all'autista di prendere la strada a sinistra, di non proseguire dritto perché era già arrivata l'acqua. Non mi ascoltò. Probabilmente temeva che volessi aggrapparmi anch'io al camion già stracarico. Tirò dritto».
La zattera
con i bidoni
Rugin costruì una zattera utilizzando quattro fusti di petrolio, ma non riuscì a raggiungere il camion, mise invece in salvo sei persone che si erano rifugiate sul tetto della loro abitazione. Dicono gli altri amici: «Eravamo tutti contadini, la maggior parte salariati. Si lavorava quaranta, cinquanta giorni all'anno e si veniva pagati per lo più in natura. Era povertà nera, in certi casi si soffriva la fame. Dopo l'alluvione la gente se ne andò, il Polesine perse due terzi della popolazione. Se ne andarono in centosessantamila, centomila di questi emigrarono definitivamente». Bin Dimer era tra gli sfollati: «La casa era inagibile, non si poteva più lavorare. Io arrivai a Montebello Vicentino con la corriera insieme a mio fratello e ad altri sfollati. Ricordo che il parroco suonò le campane, arrivò la gente del paese. Noi fummo ospitati da Adriano Pesavento, bravissima gente, avevano una piccola azienda che produceva bare, io ero falegname e gli davo una mano. Restammo fino a marzo e poi tornammo».
Il Po ruppe gli argini in tre punti in comune di Occhiobello. Altri canali che affollano la pianura riversarono l'acqua nella campagna.
Carletto Pasqualini ha il giubbotto, la camicia a quadri, il cappello. Sta in piedi in mezzo alla sua barca. «Sono qui di Occhiobello, ho 87 anni, vengo a pescare il siluro, ho il permesso. Una volta si pescava lo storione, oggi abbiamo il siluro, segno dei tempi, che ci vuole fare?» Carletto porta la rete in mezzo al fiume. È tutto grigio qua attorno, grigio il cielo, grigia l'acqua che scorre lenta, grigie le sponde. Lucio Pavasini è qui sulla banchina, ha 68 anni, anche lui è di Occhiobello. Scuote la testa: «L'ultimo storione lo abbiamo pescato nel 1964, pesava 64 chili, poi basta. Forse l'inquinamento. Però negli ultimi anni il fiume è migliorato... La casa di mia moglie era là, prima dell'argine, la piena del fiume la spazzò via. Avevo 18 anni, allora. Ricordo che piovve per una settimana, ma poi quel giorno c'era il sole. In paese si lavorava con i sacchi, li riempivamo di terra, c'era allarme, ma pensavamo che gli argini avrebbero tenuto. Dal pomeriggio cominciammo a temere il peggio. Allora andai a prelevare i nonni che stavano in un punto critico, ma i nonni non vollero andarsene. Mi organizzai, portai un tavolo in solaio, poi presi la vasca dove si scuoiava il maiale, la attaccai con una corda alla finestra perché poteva diventare una barca e misi dentro la vanga per fare da remo. L'acqua invase il primo piano, poi salì fino al solaio, io ruppi il soffitto, tolsi le tegole, uscii sul tetto, aiutai mio nonno a salire, ma mia nonna non ce la fece, restò in piedi sul tavolo e l'acqua le arrivò fino al ginocchio e sul tavolo c'erano anche alcune galline e una faraona. Verso le 21 arrivarono in barca dei poliziotti di Trieste, ma la corrente era forte, non riuscirono a imbarcarci. Ricordo bene che alle 4 della mattina calò la nebbia fitta e non si vedeva più nulla. Si vedeva. Alle 7,30 arrivarono i soldati di Milano con i gommoni, li sentivo gridare e io volevo rispondere, ma non ci riuscivo... Poi finalmente la voce mi uscì dalla gola: gridai di seguire i fili della corrente per arrivare fino alla casa. La casa dei miei nonni crollò dopo cinque, sei giorni. La ricostruimmo nel 1953 con l'aiuto del governo».


Il Mattino di PadovaLa Nuova Ferrara