16 gennaio 2002

Viaggio lungo il fiume
Sul Po trasformato in ruscello: i pesci nuotano in 25 centimetri d'acqua

In alcuni tratti il livello del più grande fiume italiano è sceso di quattro metri

BORETTO (Reggio Emilia) - «La nostra tecnica natatoria era molto rudimentale. Gli stili erano tre soli: a cagnòn, come i cani; a sguilz, a spalletta; alla marinara, con le due braccia alternate fuor d’acqua e la spinta a forbice con i piedi»: Gioànn Brera fu Carlo, quand’era un pischello di San Zenone, il dio Po dei mulinelli e delle correnti lo temeva, lo venerava. E non osava attraversarlo in altro modo. Già, chi poteva mancare di rispetto al «fiume nazionale» proclamato dal Mazzini e ai mulini di Bacchelli, alle acque che fermarono Attila e gli austriaci? Poi vennero il crawl e i ladri di ghiaioni. L’ammoniaca azotata e il pesce siluro. La sacra ampolla di Bossi e le nutrie. Gli unni senza memoria.
E oggi che il venerato dio è solo un rio selvaggio, oltraggiato, a far da pietra tombale di quel mondo scomparso è l’idrometro che al Ponte della Becca, nel Pavese, segna i quattro e passa metri d’acqua evaporati in questi mesi di secca. «Mai vista una cosa del genere», segna col dito Virginio Cerutti, classe 1927, gran cuoco di cavedani e pesci gatto, finché se ne pescavano. Mai vista l’acqua tanto bassa, 25 centimetri. Mai visti i ragazzini che corrono da una riva all’altra, le ginocchia bagnate: «Questo fiume sta morendo - dice - e nessuno è capace di praticargli almeno un massaggio cardiaco».
Addio Po. Non c’è bisogno di salire al rigagnolo del Monviso, 2.020 metri, per vedere la lapide in cuneese «a si a nas al Po» e la fatica che fa, il Po, a sopravvivere. Basta partire da uno stretto parente, il Ticino a Bereguardo, e contare le barche che fan da piloni al Ponte in Chiatte: su 28, solo nove sono immerse nell’acqua. Un mezzogiorno di silenzio desolato. Vicino all’imbarcadero Ravizza, una ruspa muove la ghiaia. Le beccacce si contendono le pozzanghere. Luigino Fantinato, 60 anni, rodigino cresciuto nelle alluvioni del Polesine e da una vita al servizio nel parco dei Crespi: «Da un mese siamo a 20 centimetri, non si rema, le eliche toccano il fondale. Le seimila anatre della riserva se ne sono andate via. Ma mica è solo perché non piove, se cala l’acqua. Il disastro qui c’è stato quando hanno spostato i ghiaioni. Il fiume è una cosa intelligente, se ha un suo letto naturale si regola da solo, sa sopravvivere. Ma se cominci a creargli strozzature, fosse, montagne di detriti, se lo riempi di terra non sua, alla fine te lo trovi così».
Qui è tutta area protetta e lungo i 654 chilometri di capezzale, ad assistere il Papà Padano, ci sono decine di consorzi e di comitati e d’associazioni, 4 enti regionali, 13 assessorati provinciali. Uno dice: esisterà chi si occupa di questa siccità. Macché. Ci sono tanti uffici che curano il tratto di competenza, misurano i livelli e fanno «monitoraggio», ma un’idea di cosa stia accadendo da Pian del Re a Comacchio, no, non ce l’hanno. Anche la sede del magistrato del Po, a Parma, ha un ufficio che si cura delle tracimazioni, «perché sono le vere emergenze da cui difendersi», ma nessuno che sappia dire qualcosa sulle magre.
«E’ un problema raro in questa stagione - racconta Renzo Dall’Ara, mantovano e memoria dei fiumi lombardi -. In fondo, per la gente del Po non è un dramma come l’alluvione. C’è anche chi ci vede del buono: un effetto benefico sarà la moria delle larve di zanzare».
Peggio le piene, d’accordo. Le passeggiate nell’alveo arido sono comunque un’angoscia, però: «Solo quindici anni fa - dice Cerutti - a cinque metri di profondità, qui sotto, c’era un pozzo con un’acqua fresca che era una cannonata. E’ morto tutto. Le falde stanno a venti metri, adesso. Il pesce è un sogno: se capita ancora qualche alborella, sa di fango». Cerutti vive alla Becca da sempre e si ricorda quando, la domenica, «venivano anche mille persone a cercarsi il posto migliore sulla spiaggia». L’anno scorso ha provato ad allevare tre anatre: morte.
«L’inquinamento, l’incuria - accusa -: dietro la mia casa, ci sono ancora ammassati i detriti della piena di sette anni fa».
Ci sono due Po, però. Uno putrescente che arriva a Piacenza, alle rive che nei secoli videro partire persino le Crociate. Un altro, da Cremona, si crede una piccola Camargue, promuove taxi boat e sente meno l’odor di morte che si porta questa stagione senza pioggia. E’ il Po di Zavattini, avvelenato dai fertilizzanti ma capace anche d’autodepurarsi, se i livelli restano accettabili. «Anche qui però siamo in allerta» spiega Enrico Andreoli, caposervizio della centrale Enel di Ostiglia, nel Mantovano: «Per ora l’idrometro segna 7 metri e 90, l’allarme scatta quando si arriva a 7 e 70. L’acqua cala d’un centimetro al giorno e per tre settimane stiamo ancora tranquilli. Poi, certo, dovremo bloccare le pompe. E allora ci sarà qualche problema per la corrente elettrica».
Ci si penserà. Fra golene e mollenti, si aspetta la primavera per misurare i danni di questo secco: «Le prime irrigazioni ci faranno capire se l’approvvigionamento d’acqua sarà sufficiente - dicono i funzionari del magistrato per il Po -. Nella siccità dell’85, almeno, ci fu una gigantesca nevicata a limitare le conseguenze. Ma con queste montagne senza un filo di bianco, per gli agricoltori non sarà facile». Solo l’altr’anno a Vaccarizza, quando alluvionò, ci fu chi andò a pregare «il Cristo dalle ginocchia piegate», un antico crocefisso che tradizione vuole abbia le gambe all’insù perché Nostro Signore non se le volle bagnare durante una piena. A Castelsangiovanni, da qualche giorno svetta all’asciutto un’altra croce piantata sulla riva, legno nero e un nome scrostato, «Eugen». L’avevano piantata in luglio gli amici d’un albanese ucciso in una rissa: il dio Po s’è ritirato, non ha più lacrime per piangerlo.


Il Corriere della Sera 2Gazzetta di Reggio